Mi chiamo Angela
(estratto dal I capitolo)Avevo 7 anni e mi trovavo chiusa in cantina. Nuda, con solo le mutandine indosso, legata allo scaffale delle bottiglie. Mia madre mi aveva messo in punizione. Il motivo? Non lo so. Ma stavo lì, in silenzio. Senza piangere, senza fare nulla… a chiedermi: perché? Ero solo una bambina, qualunque cosa avessi combinato, non meritavo un castigo del genere. Ma non sentivo rabbia verso mia madre. Per me era normale. E mi vedevo. Vedevo questa bimba, con gli occhioni sgranati nel buio, che non faceva un fiato, che non si lamentava…
Mi chiamo Angela e sono nata in provincia di Napoli: un paese dove i ragazzini vanno in moto senza casco e tutte le case sono abusive. La mattina presto, mia madre mi portava a lavorare nei campi; poi nel pomeriggio mi riportava a casa e mi toccava fare le pulizie. Se mi rifiutavo, erano botte. Così funzionava nella mia famiglia: ero la più grande, dunque mi spettavano i compiti più pesanti. La sera non andavo mai a dormire prima dell’una - dovevo lavare i piatti e rigovernare tutta la cucina - e la mattina, alle sette, ero di nuovo in piedi. Ecco perché ho smesso di andare a scuola. Non ne avevo il tempo. E in classe mi si chiudevano gli occhi per la stanchezza. Eppure, la scuola mi piaceva. Mi piaceva studiare. Per me era una vacanza. E le maestre mi adoravano. Un giorno, una di loro andò da mia madre. Le disse: è un peccato che una bambina così promettente non frequenti le lezioni. Furono parole al vento. Mia madre non mi ha mai spronato ad andare a scuola. Ai suoi tempi non aveva studiato, quindi le sembrava inutile che lo facessi io. Anche se ero portata, anche se volevo andarci. E lei lo sapeva.
Ho un altro ricordo della mia infanzia. Un’altra punizione. Mia madre mi aveva chiuso nel cucinino. Dalle persiane di ferro riuscivo a sbirciare giù, nel cortile, dove c’era lei che stendeva i panni e parlava con la vicina. Io la chiamavo: mamma aprimi, devo andare in bagno. Mamma… Ma lei mi ignorava. Oppure mi diceva che se continuavo a rompere sarebbe venuta su e mi avrebbe ammazzata di botte. Ricordo bene quell’episodio… perché è stata la prima volta che ho guardato mia madre. Che l’ho guardata veramente. La osservavo, dietro quella finestra chiusa. Cercavo di leggere nei suoi pensieri, sperando di cogliere, sul suo volto, l’ombra del dispiacere, del pentimento. Dicevo, dentro di me: adesso mi verrà ad aprire, si renderà conto di esser stata troppo dura. Ma lei invece restava lì, tranquilla, a fare le sue faccende. Era come se non esistessi. Non le importava se stavo male, se mi scappava la pipì, se stavo piangendo, se mi sentivo sola. E dentro di me risuonava sempre la stessa domanda, che per anni non ha avuto risposta: perché si comportava così? Perché?